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Antropologia della comunicazione visuale

Bag om Antropologia della comunicazione visuale

L'ipotesi del libro muove verso un'antropologia-non-antropocentrica, estesa nelle sensorialità biografiche di cose-oggetti-merci e di animali-piante-minerali tra ecologie mentali, animismi digitali, paradossi vincolanti. A tal fine, il feticismo metodologico disloca le diverse genealogie del feticcio per dirigersi verso le liberazioni possibili di un meta-feticismo oltre le reificazioni. I mass media tradizionali definiscono sempre meno la rivoluzione digitale: il concetto di massa è morto; si sta esaurendo la "mediazione" dei media tra industria culturale e un pubblico compatto; infine, nelle culture digitali ciascun soggetto può decentrare la sua narrativa. Il concetto di social network è un paradosso linguistico. Il network (e il web) dissolve la società nel suo significato industrialista; per cui l'uso inglese di social indica un genere tipologico deprivato della connotazione storica di società. Social trasforma società in codice. L'ubiquità è il concetto-chiave nelle pratiche della comunicazione digitale che modifica la percezione delle coordinate spazio-temporali, in un soggetto ubiquo che transita tra metropoli comunicazionale e culture digitali. Per questo, il web è ubiquo e l'ubiquità caratterizza identità coesistenti nelle esperienze del singolo individuo. Il testo applica il feticismo metodologico nell'introduzione, lo stupore etnografico nelle ricerche, l'ubiquità polifonica nell'antropologo, lo sguardo sincretico nella composizione narrativa. La comunicazione visuale costituisce il centro decentrato e frammentato della cultura intesa antropologicamente, per questo attraversa diversi generi: cinema di fiction e documentario nativo, televisione e serial, fotografia e brand, pubblicità profumata, design personalizzato, architetture impure, voce-off in maschera etc.. La trama narrativa connette l'ecologia di Bateson e il videodrome di Cronenberg, il profumo performato di Kenzo e le strade smarrite di Lynch, le teste mozze di Pasolini, le Thriller Girl di Kracauer e gli storni romani, fino all'auto-rappresentazione di ego-ubiquo e io-porno affacciati sul meta-feticismo. Massimo Canevacci è un antropologo "indisciplinato" e "ubiquo". Le sue ricerche etnografiche hanno attraversato la città polifonica di São Paulo e la linea di polvere nel villaggio Bororo; i sincretismi culturali e i feticismi visuali; la comunicazione digitale e le culture eXtreme. Ha insegnato Antropologia Culturale e Arte e Culture Digitali presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Come Visiting Professor è stato invitato in diverse università Europee, Tokyo (Giappone), Nanjing (China). Attualmente è Visiting Professor nella cattedra "Edward Said" - Università di São Paulo UNIFESP, eppure la sua condizione di semi-esiliato non sembra ancora finita.

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  • Sprog:
  • Italiensk
  • ISBN:
  • 9788874901807
  • Indbinding:
  • Paperback
  • Sideantal:
  • 276
  • Udgivet:
  • 30. december 2017
  • Størrelse:
  • 152x15x229 mm.
  • Vægt:
  • 372 g.
  • BLACK WEEK
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Beskrivelse af Antropologia della comunicazione visuale

L'ipotesi del libro muove verso un'antropologia-non-antropocentrica, estesa nelle sensorialità biografiche di cose-oggetti-merci e di animali-piante-minerali tra ecologie mentali, animismi digitali, paradossi vincolanti. A tal fine, il feticismo metodologico disloca le diverse genealogie del feticcio per dirigersi verso le liberazioni possibili di un meta-feticismo oltre le reificazioni. I mass media tradizionali definiscono sempre meno la rivoluzione digitale: il concetto di massa è morto; si sta esaurendo la "mediazione" dei media tra industria culturale e un pubblico compatto; infine, nelle culture digitali ciascun soggetto può decentrare la sua narrativa. Il concetto di social network è un paradosso linguistico. Il network (e il web) dissolve la società nel suo significato industrialista; per cui l'uso inglese di social indica un genere tipologico deprivato della connotazione storica di società. Social trasforma società in codice. L'ubiquità è il concetto-chiave nelle pratiche della comunicazione digitale che modifica la percezione delle coordinate spazio-temporali, in un soggetto ubiquo che transita tra metropoli comunicazionale e culture digitali. Per questo, il web è ubiquo e l'ubiquità caratterizza identità coesistenti nelle esperienze del singolo individuo. Il testo applica il feticismo metodologico nell'introduzione, lo stupore etnografico nelle ricerche, l'ubiquità polifonica nell'antropologo, lo sguardo sincretico nella composizione narrativa. La comunicazione visuale costituisce il centro decentrato e frammentato della cultura intesa antropologicamente, per questo attraversa diversi generi: cinema di fiction e documentario nativo, televisione e serial, fotografia e brand, pubblicità profumata, design personalizzato, architetture impure, voce-off in maschera etc.. La trama narrativa connette l'ecologia di Bateson e il videodrome di Cronenberg, il profumo performato di Kenzo e le strade smarrite di Lynch, le teste mozze di Pasolini, le Thriller Girl di Kracauer e gli storni romani, fino all'auto-rappresentazione di ego-ubiquo e io-porno affacciati sul meta-feticismo. Massimo Canevacci è un antropologo "indisciplinato" e "ubiquo". Le sue ricerche etnografiche hanno attraversato la città polifonica di São Paulo e la linea di polvere nel villaggio Bororo; i sincretismi culturali e i feticismi visuali; la comunicazione digitale e le culture eXtreme. Ha insegnato Antropologia Culturale e Arte e Culture Digitali presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza". Come Visiting Professor è stato invitato in diverse università Europee, Tokyo (Giappone), Nanjing (China). Attualmente è Visiting Professor nella cattedra "Edward Said" - Università di São Paulo UNIFESP, eppure la sua condizione di semi-esiliato non sembra ancora finita.

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